Descrizione
La solennità del 10 febbraio fu istituita con il nome di “Giorno del ricordo” nel 2004, con l’intento di onorare “la memoria di tutte le vittime delle foibe e/o dell’esodo dalle loro terre, degli istriani, fiumani e dalmati”.
Il 10 febbraio del 1947 fu infatti il giorno in cui venne firmato il trattato di pace di Parigi, a seguito del quale l’Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia, l’Istria e parte della provincia di Gorizia, Fiume, Zara, la Dalmazia e le isole del Quarnaro. Fu inoltre decretata l’internazionalizzazione di Trieste, che tornerà ad essere italiana a tutti gli effetti solo nel 1954.
Tra la metà e la fine degli anni '40, nell’area istriana, fiumana e dalmata la popolazione riconducibile all’Italia rappresentava il gruppo dominante e, dopo il trattato, fu identificata dal nuovo regime come nemica del popolo jugoslavo. I cittadini di etnia e lingua italiana divennero oggetto di violenze e soprusi e, a seguito delle deportazioni e degli eccidi delle foibe, furono costretti ad abbandonare le loro case.
Per aiutarci a comprendere e ricordare il forzato esodo della popolazione di origine italiana da questi territori, può essere utile un breve brano tratto da “Dentro l’Istria” di Guido Miglia. Ex allievo di Carlo Bo, scrittore, giornalista (fu anche direttore del quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale "L'Arena di Pola”) e insegnante originario di Pola, Guido Miglia lasciò la sua terra a seguito del trattato del 1947.
Queste le parole con cui descrive la dolorosa partenza nel volume “Dentro l’Istria”:
“Ho atteso questo dieci febbraio nella trepidazione della notte insonne, fuori il vento ha fischiato sinistro, un lampione tremava e gettava la sua povera luce fredda nella mia finestra vuota; poi con la grande valigia ho camminato sulle strade della mia città quando il cielo era ancora buio, gli alberi dei Giardini erano scossi dal vento.
Lungo il Corso stretto mi seguiva il vento, che veniva gelido dal mare, molti negozi erano senza vetrine, strappati anche i vetri e le saracinesche, come volti senza occhi, i portoni dei palazzi erano aperti, le imposte lasciate libere si aprivano e si chiudevano nelle case abbandonate, come tombe scoperchiate.
Un vecchio, prima di salire sulla nave, si inchinò fino a terra e la baciò, poi si mise sulla poppa e io vidi la sua schiena che sussultava in un tremito convulso. Guardai ancora una volta la splendida banchina della mia riva, l'Arena e il palazzo dell'Ammiragliato, il ponte di Scoglio Olivi, le piccole case sulla mia collina, e scesi sottocoperta a fissare intontito la mia valigia”.
Il 10 febbraio del 1947 fu infatti il giorno in cui venne firmato il trattato di pace di Parigi, a seguito del quale l’Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia, l’Istria e parte della provincia di Gorizia, Fiume, Zara, la Dalmazia e le isole del Quarnaro. Fu inoltre decretata l’internazionalizzazione di Trieste, che tornerà ad essere italiana a tutti gli effetti solo nel 1954.
Tra la metà e la fine degli anni '40, nell’area istriana, fiumana e dalmata la popolazione riconducibile all’Italia rappresentava il gruppo dominante e, dopo il trattato, fu identificata dal nuovo regime come nemica del popolo jugoslavo. I cittadini di etnia e lingua italiana divennero oggetto di violenze e soprusi e, a seguito delle deportazioni e degli eccidi delle foibe, furono costretti ad abbandonare le loro case.
Per aiutarci a comprendere e ricordare il forzato esodo della popolazione di origine italiana da questi territori, può essere utile un breve brano tratto da “Dentro l’Istria” di Guido Miglia. Ex allievo di Carlo Bo, scrittore, giornalista (fu anche direttore del quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale "L'Arena di Pola”) e insegnante originario di Pola, Guido Miglia lasciò la sua terra a seguito del trattato del 1947.
Queste le parole con cui descrive la dolorosa partenza nel volume “Dentro l’Istria”:
“Ho atteso questo dieci febbraio nella trepidazione della notte insonne, fuori il vento ha fischiato sinistro, un lampione tremava e gettava la sua povera luce fredda nella mia finestra vuota; poi con la grande valigia ho camminato sulle strade della mia città quando il cielo era ancora buio, gli alberi dei Giardini erano scossi dal vento.
Lungo il Corso stretto mi seguiva il vento, che veniva gelido dal mare, molti negozi erano senza vetrine, strappati anche i vetri e le saracinesche, come volti senza occhi, i portoni dei palazzi erano aperti, le imposte lasciate libere si aprivano e si chiudevano nelle case abbandonate, come tombe scoperchiate.
Un vecchio, prima di salire sulla nave, si inchinò fino a terra e la baciò, poi si mise sulla poppa e io vidi la sua schiena che sussultava in un tremito convulso. Guardai ancora una volta la splendida banchina della mia riva, l'Arena e il palazzo dell'Ammiragliato, il ponte di Scoglio Olivi, le piccole case sulla mia collina, e scesi sottocoperta a fissare intontito la mia valigia”.
A cura di
Ultimo aggiornamento pagina: 10/02/2023 14:47:06